domenica 22 novembre 2015

Cambio stagione

Ogni tanto ci penso a questo posticino, a quando ho tirato su le sue mura, al tempo che mi sembrava "quello giusto". Come quando entri in una nuova casa, la vuoi fare tua, vuoi appenderci i tuoi quadri, riempirla con le tue cose... sarà tua quando riuscirai a metterci dentro la tua vita passata e presente, lasciando lo spazio necessario per quella futura. Io è così che pensavo di fare con questo posto. Poi sono cambiati i tempi ed i luoghi, sono cambiate le persone e le abitudini, ma soprattutto sono cambiate le priorità. Ma i bisogni? Sono cambiati anche quelli? No perché a volte penso che mi farebbe bene venire qui ad appendere una tendina, aggiungere un libro sulla mensola; i luoghi sono come i rapporti, se non li frequenti/alimenti, quelli poi non ti appartengono più. A me i pensieri fanno il tagatà in testa, se li ordino qui, come fossero calzini nei cassetti, poi li ritrovo prima. Li acchiappo più in fretta... non me li perdo più.
Primo cassetto del comodino, in basso a sinistra:
Tutti i colori, tutti mischiati tra loro mentre rotolo giù dal gonfiabile. E' enorme, o sono io molto piccola. Ho delle calze di lana rosa con dei fiorellini bianchi, mi tiro giù la gonnina con le mani, le nocche bianche per l'impegno che ci metto a non farla scappare. Mi lancio testa giù, rosso/cielo azzurro...giallo/cielo azzurro...verde/cielo azzurro...fuxia/cielo azzurro... lui/lei/cielo azzurro. Il fiatone forte e la risata adrenalinica "posso farlo ancora?". E' lei che mi risponde "certo!".., ha un sorriso bianchissimo e dei riccioli rossi/marroni che sbattono un po' con il rossetto fuxia. Ma il suo sguardo è sincero, la sua felicità autentica, autentica e precaria come la mia. La serenità di entrambe appesa al medesimo filo invisibile: lui. Lei già arresa a ciò che non si può cambiare, io estranea alla logica dei rapporti umani... ma con le stesse identiche sensazioni, la stessa spregiudicata consapevolezza.
Dei gonfiabili hanno riportato a galla questo lontanissimo ricordo, talmente frammentario e sbiadito da non potervi aggiungere altro. Come mi capita sempre, più che i fatti, sono le sensazioni che tornano a galla. Passato lo stupore del ricordo mi sono chiesta dove fosse ora quel sorriso, lei si chiamava Grazia. Chissà se Grazia ha trovato la serenità per sorridere sempre in quel modo stupendo... 

mercoledì 18 marzo 2015

E io che volevo mostrarti la strada

L'accordo è di "vederci" sotto casa... ti citofono per farti sapere che sono arrivata e, come tutte le volte, mi dirai di salire. L'ascensore è quasi sempre occupato e dieci piani sono la tua scelta per avere il giusto panorama, per “sentirla” tutta questa città, dai piedi del monte che la protegge alle spalle, al mare che ne spazia l'orizzonte infinito. L'hai scelto tu il tuo nido, con i balconi che corrono intorno alle sue mura... un pezzetto di spazio dove stare sospesi sul cielo. Quando entro tu non sei pronta, non sei mai pronta e questa è una cosa comune alle persone che nella vita vorrebbero fare tutto. Ma proprio tutto. “Che tempo fa fuori?” Allora io mi affaccio dal finestrone della sala e comincio a descriverti il cielo. Ci stanno di quei giorni che davvero non è facile, questo luogo ti regala dei tramonti che io mai nella mia vita avevo visto. E arranco con le parole, consapevole che esse non riusciranno mai a riempire il vuoto che i tuoi occhi regalano. Eppure sorridi, ti si gonfiano le guance e sembri davvero riuscire a dare forma ai miei pensieri: un giorno ti chiederò se lo fai per farmi felice o se davvero ti arriva qualcosa, un ricordo, una sfumatura di colore... Ti preoccupi dei vestiti (tua figlia spesso ride agli accostamenti multicolore dei tuoi capi) ma io ti trovo bella così come sei, sfacciata, vivace, inconsapevolmente viva. Il canto, il ballo, le lezioni a scuola, i ferri a maglia, il pilates... è che vorresti infilarci dentro tante altre cose ma le giornate sono fatte di 24 ore e tu non te ne fai proprio una ragione. E' una corsa la tua sai?! Io forse l'ho mezzo capito, è una gara per prenderti tutto quello che le persone come te non possono o non riescono a fare. E' una sfida alla privazione che la natura ti ha regalato. E' la dimostrazione -meglio riuscita- della potenza della volontà. Ed è l'ottimismo che mi spiazza, la tua felicità, l'humour sottile... tutto ciò mi fa sentire ingrata verso la me stessa sana, quella che si lascia affondare per sua stessa mano, quella che si benda gli occhi.
Tu che vivi in un mondo senza colori, racconti a me quanto è bello questo cielo...

martedì 20 gennaio 2015

In Quiete (cit CSI)


"Altrove" è ovunque la mia felicità sia, sarà lì che abiterò. 
Mi basterà seguire me stessa.

venerdì 12 dicembre 2014

Waiting for Christmas

Il Natale è una festività crudele, l'ho pensato qualche giorno fa girando tra le bancarelle di questa città. Il Natale non lo puoi ignorare, ti gira intorno con i suoni, i colori, gli odori... sfido chiunque a farselo scivolare addosso. Soprattutto se l'hai amato. Una Pasqua la potrei quasi saltare a piedi pari, chiudo un occhio su di una colomba, ignoro un uovo di cioccolato al supermercato, ma il Natale... come si fa con il Natale?! La gente è stramaledettamente felice di comprare/mangiare/stare insieme. Le persone cercano tra le bancarelle il giusto regalo, io cerco dentro la festività le persone. Quelle che se ne sono andate una dopo l'altra, quelle che potevano pure andare via un po alla volta... che mica si fa così?! Mica si va via in gruppo. Non vale. E io mo che me ne faccio del Natale?
E insomma ero immersa nella malinconia soffocante di questi pensieri quando mi sono sentita felice, felice di aver avuto la forza di cambiare (ancora una volta) le cose, felice di essermi venuta a prendere ciò in cui credevo, di aver trovato una dimensione che mi faccia star bene nel corpo e nella mente. E sarà pure un Natale un pò più vuoto (un bel po più vuoto), ma è un Natale che io mi sono sudata e guadagnata. Oggi festeggio il Natale che vorrei, quello che mi sto costruendo.


lunedì 10 novembre 2014

Forse le lucciole non si amano più (cit.)

Sento mia questa nuova, raccolta, realtà. Ed è forse stato necessario saltare da un minuscolo paese ad una grande città per capire che la giusta dimensione, per me, sta nella via di mezzo. E' questa una città che regala molte realtà senza toglierti di dosso l'umana sopportazione del vivere. Le distanze che si accorciano, i luoghi che, riproponendosi, diventano quotidianità. Come piace a me. Ognuno, alla fine, deve trovare la sua dimensione. Tra le varie “comodità” ci sono le sale cinema, alcune delle quali, molto vicine casa mia. Non di rado, quindi, ci si concede un film. La scorsa settimana proiettavano “La storia della principessa splendente” del maestro Takahata e incuriosita sono andata a vederlo... amo questo genere d'animazione, ma sono probabilmente assuefatta dal grande Miyazaki e ora, a distanza di giorni (devo pensarci sempre un po su), posso definirla una bella favola, niente di più. Ma non è del film che voglio parlare, è di una scena quasi surreale che si è venuta a creare in sala a metà proiezione. Diciamo che già dal principio avevo percepito di essere tra un “pubblico” alquanto particolare e la mia perspicacia mi aveva avvertito che non sarebbero state due ore tranquille. Avevo affianco a me una signora che accompagnava una ragazza con problemi psichici molto evidenti che sin dai primi minuti di pellicola indicava lo schermo facendo versi molto simili a miagolii. Fin qui, tutto normale, di fronte a determinati problemi non devono esistere intolleranze o fastidi di alcun genere. Ed infatti la ragazza, a mio avviso, era la più sana della sala. Davanti a me un gruppo di tre uomini (sembravano ben addentrati in quel genere di filmografia) ridevano a pieno petto alle scene più drammatiche e profonde. Tanto che ho cominciato a chiedere a me stessa se non mi stesse sfuggendo il senso del film. Lateralmente sulla mia sinistra, qualche fila più su, un uomo di mezza età ripeteva a gran voce le frasi più significative della principessa splendente. Non so se siete mai capitati in una di quelle scene dove voi siete nel mezzo e tutto diventa così paradossale e assurdo che tutto, ma dico proprio tutto, perde il suo senso logico e lineare. A metà film la signora che è affianco a me tira fuori il suo cellulare (in modalità silenziosa) dalla borsa e attiva il display luminoso, lo avesse mai fatto... il tipo “pappagallo” qualche fila più su ha cominciato ad urlare (urlare vuol dire urlare) “spegnere i cellulari!” “spegnere i cellulari!” “spegnere i cellulari!”... sicché la tipa affianco a me si è sentita leggermente chiamata in causa e gli ha urlato di risposta “è silenzioso! Si faccia i cazzi suoi!”. Da lì la situazione è degenerata ad una velocità supersonica, la gente “normale” in sala ha cominciato a coreggiare “schhhhhhhhhh....schhhhhhhh...schhhhhh”. Io non me la sono sentita, pur volendo non sarei riuscita a proferire alcun suono tanto ero allucinata. Inconsapevole per giunta che il belo stava proprio per arrivare... uno dei tre uomini seduti davanti a me si alza in piedi, ha le mani poggiate sui fianchi e fissando l'intero pubblico (tanto per non sbagliarsi suppongo) urla a gran voce: “la finite o vi devo spaccare la faccia a tutti?!”. Io mi sono appiattita sulla mia poltrona come mai avevo fatto nemmeno nel banco di scuola quando iniziavano le interrogazioni. Per un attimo ho anche meditato di mollare la sala e rinunciare all'altra metà del film. Ma poi ho pensato che non volevo rinunciarci e mi è salita una rabbia feroce, ero al cinema perché volevo “staccare” un po il cervello dalla vita reale, perché volevo “calarmi” in una favola che mi portasse da qualche altra parte. Ed invece no, lo spettacolo più bello (che vuol dire più brutto) me lo regala sempre il genere umano nella sua più profonda e squallida pochezza.
Ma dove si deve andare per sognare un po?!


venerdì 24 ottobre 2014

Virgola

Io manco so chi è Bruno Lauzi, ma deve essere uno che sa il fatto suo. Ha scritto questa canzone qui che io ascolto seduta in ginocchio, per terra, davanti la radio di nonna e nonno. Mi rigiro tra le mani le cassette chiuse in una scatola di scarpe ed alla fine scelgo sempre questa, ha la scritta "Daiana" su di un lato, a pennarello. "Metti quella che ci sta tua madre che presenta le canzoni alla radio...", mia nonna ha uno strano modo di esternare il suo orgoglio familiare, di solito lo fa di spalle, in piedi, davanti ai fornelli. Forse perché è sempre lì. Infilo la cassetta e premo il primo pulsante a sinistra come mi ha insegnato nonno, ci stanno quei 4/5 secondi di silenzio dove a me tutto sembra galleggiare nell'aria. Persino mia nonna mi pare più leggera. Le cose tutt'intorno ricominciano ad avere il loro peso quando riconosco "quella" voce, è più giovanile, è più squillante, è la voce guida. Non so ancora che sarà ciò che cercherò sempre quando sarò triste, nella mia vita.

Ero in libreria che giravo tra gli scaffali di libri per bambini e l'occhio mi è cascato su di una copertina, c'era scritto "Virgola". Una parola è stata capace di riaprire un cassetto della mia memoria ormai chiuso da chissà quanto tempo. E lo capite quanto sono belli i ricordi?! Loro sono lì, fanno finta di esser stati dimenticati, quando in realtà si auto custodiscono in quel labirintico posto che è la nostra memoria. Quando uno di loro "risbuca" fuori io mi sento un pò più ricca, un pò più salda, un pò più felice.

venerdì 10 ottobre 2014

Si tratta di sopravvivenza

Uso la tecnologia.
La uso attraverso il cellulare, il computer, tutti i mezzi che in qualche modo mi semplificano la vita.
Semplificano, appunto.
La luce no, la luce la voglio accendere e spegnere io. 
Altrimenti vi prego, fatemi capire qual'è il metro di misura utilizzato per calcolare la durata della luce automatica in un bagno pubblico. Posso dire con certezza che non è il tempo medio di una minzione normale. E non è giusto (e non è nemmeno comodo) dover salutare il soffitto quando si è in bilico per  far centro e mantenere una dignità igienica.
Così, volevo dirlo da un po.